Due scritti riferiti a due episodi chiave dell’infanzia di Maria. Il primo è preceduto da una spiegazione del contesto redatta da Gennaro Di Lauro

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L’inizio degli anni ’40 fu contrassegnato dall’entrata in guerra dell’Italia e la città di Napoli era martellata dai bombardieri anglo-americani di notte e di giorno. La famiglia di Ferdinando Di Lauro, padre di Maria, che abitava allora in via Pietro Colletta, verso il tribunale, decise di sfollare, quindi, a Giugliano, ospite nel palazzo delle sorelle in vico Pozzo vecchio, l’odierno vico Gargetti. Oltre alla moglie Rosetta Dente, portò, naturalmente, con sé la figlioletta Maria, chiamata familiarmente Pupetta. Sistematisi, dunque, nella casa delle zie, la piccola aveva preso l’abitudine, al mattino appena sveglia, di correre nella camera dei genitori e infilarsi tra di loro nel lettone e la mamma le raccontava fiabe. Ma una triste mattina del 1942 Pupetta, slanciandosi verso la stanza dei genitori, trovò l’uscio chiuso e sentì forti grida provenienti oltre la porta. La sua mamma quel giorno non si era svegliata! Per lo choc subìto la bimba non parlò più per una intera settimana e, standosene seduta su una sediolina a dondolo, stringendo forte al petto una bambolina, ripeteva incantata: mammina … mammina!

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LA MORTE DELLA MAMMA

di Maria Di Lauro

(Ma cosa pensavi … a quei tempi? Che; … il male fosse forma ad uso e consumo dei tuoi … simili, solo perché ti dis-identificavi dal triviale e tribalistico popolo tra cui hai avuto in sorte il vivere …? Questo è un popolo con ricchi proprietari di terra, generalmente legati come sanguisughe al “pezzo di terra” … e alla prole, borghesia (non esente da presunzione …) e maggioranza popolaccio che padri e madri analfabeti difendono dagli “altri …”come lupe”.)

Fin da molto piccola, quando già pativo di forme d’inerzia e di inedia, dovute in parte al temperamento curioso, indagatore e diviso tra l’osservazione portata al criticismo e una natura poco amante delle sofferenze … o meglio che si stupiva quando lacerandosi un ginocchio voleva subito conoscere che fosse quel dolore forte che percepiva e in quanto tempo era curabile … .

Chiedevo subito: che cosa è successo …? Ritrovandomi con una cosa sanguinolente addosso che mi frenava i giochi e il movimento … . L’inedia mi nasceva in gran parte dall’essermi ritrovata, a pochi anni … a rendermi conto di come la malattia e poi la morte … fossero un primo “dato di fatto” nella dimensione in cui mi trovavo, e ricordo benissimo la scena di quel giorno pieno di sole e di urla nel quale cominciai a correre verso una porta, la porta della stanza da letto di mia madre … che trovai chiusa e mentre molte mani mi strappavano letteralmente di là e vidi trambusto, grida di bestie ferite e facce che in passato erano state piene di sorrisi e capelli mossi con la grazia della giovinezza, trasformarsi in facce contorte dal dolore e mi avvedevo benissimo che di questo dolore loro, io mi rinvenivo a costituire una specie di punto centrale.

Queste poche ore di “ferocia” mi segnarono in seguito per sempre e non le avrei dimenticate quasi in nessuna né in alcuna circostanza della mia storia, la giornata col sole non mi pareva più né bella e né buona, ma una sorta di stravolta, indifferente e malvagia “cosa luminosa …” che evocava, per altri, alberi e corse e gioia, ma che per me era, nel suo fattivo, un qualche fattore maligno e aspro … quasi che io non fossi e né avessi potuto essere, come tutti gli altri … più, ma fossi piuttosto e per qualche oscura ragione, una verso cui la vita, quel sole e quel giorno, si esprimevano da “nemici”.

Si sotterraneò da quel giorno dentro di me e nella mia memoria inconscia una qualche sorta di ostilità verso la vita che la vita seguente avrebbe solamente approfondito. Nell’epoca dei miei soli tre anni, il ciclo vitale umano di nascita e morte … colpendomi così precocemente e d’improvviso, sortirono l’effetto subitaneo di fare di me “una diversa”. Lo strazio, il trambusto di quell’orribile mattina non furono leniti mai ed ebbero, come effetto momentaneo, un mio istintivo “irrigidimento autodifensivo” nei riguardi di tutto quello strazio doloroso che mi voleva come con “sua propria centralità”.

Io, fatta buia e rigida davanti a quelle grida, a quelle orribili facce, a quei tristissimi lamenti, incominciai ad osservare, con occhi attoniti e oserei dire: freddi … ”di che bruttezza facciale fossero capaci quelle facce”.

E soprattutto badavo dentro di me, sia pure a tratti, strillando anch’io, con un dolore che volevo dichiarare più forte del loro a preservarmi da quella loro pietà che mi veniva contro e addosso come una fattiva ed effettiva … forma di violenza. Io non volevo assolutamente essere compatita, come invece facevano tra strilla, contorsioni facciali e lamenti (Ho udito spesso … nei miei momenti della religiosità chiesiale paranoica … questo stesso lamento oscuro, e nel corso di questi ultimi dieci anni di “novello colpo sinistro e in qualche modo, seppure differentemente, affine e consanguineo di … quel primo… .

Era quell’Ave Maria che in chiesa recitano a lamento, come di chi abbia un cuore del tutto “a terra” e soffocato … il cuore basso delle recitanti che si esprime in tutte le chiese … che mi ha ossessionata in questi lunghi anni dell’INERZIA INEDIA NOVELLA, e che, come in molte psicosi, si manifestava all’esterno … talora interrotto dal suono-ricordo esteriorizzato della mia voce infantile (che udivo, petulante e a me vicina: all’esterno)

Porre domande …

Di inedia o noia … incominciai così a patire fin da quel famoso giorno “indelebile” …

Sia pure intervallandomi nel gusto del gioco, dei soli, degli odori di caramelle abbrustolite e sere di autunno e sonni clementi.

Epperò della vita dei giocattoli che ricevevo nelle festività natalizie, essa mi apparve sempre “fattore carente … soprattutto là dove venivo come costrittivamente protesa a gioirne … .In realtà, ne gioivo autenticamente … ma era il dopo del giorno che mi si ripresentava nelle forme abituali della carenza.
Probabile che io fossi in realtà una bambina sana … epperò già fin da quei lontani giorni afflitta da un meccanismo dell’inedia, come di ogni bambino che si rinvenga a fare i conti con la sua propria solitudine.

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La festa – Raccontino della giovinezza  (*)

 di Maria Di Lauro

La bambina giocava al sole sui gradini della casa, incuriosita dalle scarse dimensioni della sua piccola compagna, quando l’aria fu piena di fischi sibilanti e urli di sirena.
Si trattava di un’incursione aerea, ma la bambina pensò subito a una festa.

Quel frastuono improvviso le ricordava i fuochi pirotecnici che incendiavano il cielo tranquillo della sua piccola provincia del sud. Contemporaneamente, per riflesso condizionato, le sfilarono nella mente fresca, non ancora offuscata da razionalismi, le processioni bianche, angeliche, delle comunicande, i noti visini rosati, i gigli freschi che esse stringevano nelle piccole mani pure.
Desiderò subito di slanciarsi nelle vie del paese, di posare i suoi occhioni sgranati, sognanti, sulle scene or ora vagheggiate con la fantasia. Batté le manine. “Andiamo, zia” gridò, “andiamo, per favore”.

Il viso della zia, bruna come una zingara, si contrasse in una smorfia di terrore. “No” disse afferrandola e traendola nello stanzone scuro, a pianterreno. “La festa può aspettare. Vieni dentro”. La bambina, stupita, si accucciò sul gran letto campagnolo e stette a guardare gli altri, i molti altri che affollavano lo stanzone, dopo essersi chiusi alle spalle una gran porta rustica, dello spessore di sette o otto centimetri.

Si sentiva soffocare, in quella stanza, stando lì sospesa, su quel letto, posto a un’altezza quasi vertiginosa dal pavimento. Non riusciva a spiegarsi questa stranezza degli adulti che, dinanzi ai primi segni della festa, si erano assurdamente rinchiusi dietro la grossa porta che, a quanto lei sapeva, i padroni chiudevano solo di notte, per dormire.

Gli occhioni fissi, sgranati, alla porta, ella biascicò qualche miagolio che fu pietosamente raccolto dalla zia, bruna come una zingara. “Gioca con la tua amichetta. Più tardi si uscirà per vedere la festa”, le disse.

La bambina si voltò e si accorse di non essere sola sulla superficie ruvida del grande letto. La bambina più piccola di lei le era accanto, e aveva l’aria indifferente dei cuccioli che non s’accorgono di ciò che accade intorno a loro.
Allora anch’ella si distrasse e non fece più caso alle espressioni sgomente, braccate, delle persone che le stavano d’intorno.
Alzò la manina piccola, rosea in una carezza all’esserino più piccolo di lei.

Fuori si udivano ancora i fischi che laceravano l’aria; la grossa porta, unica apertura oltre a quella angusta di un finestrino posto in alto, aveva tappato la stanza che appariva come una topaia. Là dentro si respirava a fatica e forse per questo i respiri si acutizzavano e risultavano affanni.
La bambina, incuriosita, eccitata, toccava con le piccole dita aperte i lineamenti dell’altra, e le pareva di maneggiare una bambola viva.
D’un tratto tra gli spari dell’aria si udirono alcuni colpi vicini, battuti alla grossa porta. A tutta prima nessuno li udì. Storditi e svigoriti nel buio, tutti tacevano, i volti erano terrei e gli occhi sbarrati. Si tenevano chi presso il tavolaccio scuro, appoggiandovisi con entrambe le mani; chi presso il camino, nero di fuliggine, chi rasente al muro e ai mobili, senza parlare, senza guardarsi, che, del resto, illuminati com’erano dall’unico finestrino in alto, si sarebbero visti a fatica. I colpi si ripeterono, stavolta come sassate.“Sono Maria” urlò la voce di una donna dal di fuori: “Apritemi! Voglio la mia bambina.”.

Uno degli uomini s’avvicinò alla porta, fece scorrere il paletto, poi, facendo forza coi muscoli, spostò la porta fino a lasciare aperto uno spiraglio. La bambina eluse per un attimo l’attenzione dalla sua bambola viva e guardò lo spiraglio di luce e di aria che le si era aperto davanti. Il suo piccolo cuore dovette provare un inconsapevole slancio alla libertà. Si ricordò del sole lasciato sugli scalini della casa, del cortile ampio dov’era solita correre e desiderò tornare fuori, all’aperto.

“La festa” disse con un accento di pianto. “Dopo” le fece coro la zia col tono flebile di chi non ha più un filo di sangue nelle arterie “dopo andremo…”.
Sulla soglia era frattanto comparsa una donna di una trentina d’anni, secca e bruna, coi capelli in disordine. “La mia bambina” affannò e sembrava una bestia che cerchi il suo cucciolo “dov’è la mia Assuntina?”.

Il volto pallido sotto i capelli scuri, scarmigliati, fu ingoiato dal buio quasi subito ricaduto nella stanza; la bambina, dal suo letto, vide una forma agitarsi nella sua direzione, poi quasi di violenza le fu strappato il suo giocattolo vivo dal fianco. La madre si era gettata sul letto, stritolando nell’abbraccio frenetico la bambina più piccola. “Assuntina, Assuntina mia” ripeteva come invasata.

La bambina, privata della sua distrazione, tornò a lamentarsi piano, sottovoce. Nel cervello sentiva la sua sfilata di colombe pure, agitarsi al vento; i veli bianchi, preziosi si gonfiavano come ali aperte, coprendo l’intera via, quella cinta da muri alti, rivestita di muschio.

“La festa” ripeté lamentandosi.

La zia ebbe pietà di quella sua solitudine. “Vieni qui” la chiamò “qui, Pupetta, accanto a me”.

La bambina guardò nel buio e distinse a stento la figura della zia, appoggiata a uno stipo. Sentì un improvviso bisogno del suo calore, delle sue mani amorevoli tra i capelli, e si lasciò faticosamente scivolare giù dal letto, approdando con un salto sul pavimento. Mosse alcuni passi alla cieca nel buio. “Vieni” si sentiva dire dall’altro lato dell’immensa stanza “vieni …” e la bambina brancolava nel buio, guidata dalla voce … .

Ma d’un tratto mentre si trovava al centro della stanza e le restava metà del cammino da fare, fu scaraventata da un crollo improvviso contro il pavimento e vi giacque, semisvenuta. Tempo dopo, non riuscì a stabilire quanto tempo dopo, sentì che scavavano.

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Questo breve racconto, che Gennaro Di Lauro ha trovato tra le carte di Maria, su fogli di quaderno a quadretti, fa riferimento a un episodio realmente accaduto il 3 ottobre del ’43, quando Pupa aveva quattro anni, era orfana della madre, morta l’anno prima, e viveva nella casa del nonno, in via Concezione 15, affidata a una zia che le faceva da mamma.
Gli americani risalivano lentamente la penisola per liberarla dall’oppressione del regime nazifascista; il giorno dopo quel fatidico 3 ottobre sarebbero entrati a Giugliano. I tedeschi reagivano rabbiosamente anche nei confronti della popolazione inerme e rallentavano con tutti i mezzi l’avanzata degli alleati anglo-americani. Le armi ancora tuonavano.
Un proiettile di cannone si schiantò nel cortile dell’abitazione, la parete esterna di uno stanzone e gran parte del passetto superiore crollarono. Maria Adamo e la figlia, la bambina Assunta Pugliese, furono dilaniate dalle schegge e persero la vita.
Anche la piccola Pupa fu colpita, creduta morta, estratta dalle macerie con gli occhi e le orecchie sanguinanti.
Questo episodio è descritto nel libro “Testimonianze ed eventi a Giugliano dall’8 settembre al 5 ottobre 1943” di Emmanuele Coppola e Teresa Davide, edito dal Centro Studi Alberto Taglialatela – Giugliano.

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