Annoiato di una vita
dai malori indebolita
venni qua per istar sano
nella terra di Giugliano.
Se dai Giulii o se dai gigli
questa terra il nome pigli
io nol so; ma so di certo
che Giugliano è un loco aperto
e non ha collina intorno
che gli celi il mezzogiorno.
L’aria è sana, il ciel sereno,
e sì fertile il terreno
che produce erbe squisite,
frutta dolci e saporite.
Ma di nettare bocconi
sono i fichi ed i poponi,
e quei teneri e non molli
delicati capocolli,
per li quali io lascerei
anche il cibo degli Dei.
Ha le strade lastricate,
piane, belle e popolate,
ed ha pur le sue stradette
solitarie ed ombrosette,
che conducono a Marano,
a Panicocoli, a Mugnano,
ad Aversa, a Santo Arpino,
Grumo, Fratta e Casandrino.
Non vi è casa, benché vile,
che non abbia il suo cortile,
ove sorgon certe belle
piante giovani, novelle,
sotto l’ombra delle quali
quelle genti naturali
se ne stanno liete liete
in santissima quiete.
Quivi trovo la cucina,
la dispensa, la cantina,
il granaio e la stalluccia
per il porco e per la ciuccia.
Nelle stanze da dormire
vi son letti da stupire,
ma son alti a segno tale
che vi vogliono le scale.
Cinte poi le stanze intorno
son da logge a mezzogiorno
che da questo e da quel lato
hanno un fresco pergolato
di pendenti uve mature,
parte bianche e parte scure.
Pende là sospeso al perno
il cocomero d’inverno,
pendon qui da giunchi stretti
cento rustici mazzetti
di cipolle, di silvane,
sorbe gialle e melagrane.
Ma la gente del paese
è sì buona e sì cortese
che se un po’ ti fai vicino
al suo tetto, al suo giardino,
e ti fermi per diporto
a guardar la casa e l’orto,
esce tosto la padrona
lieta lieta, buona buona,
e piacevol e gentile
t’introduce nel cortile,
e ti porta al suo granaio,
al suo forno, al suo pollaio
e ti dà d’amore in pruova
il pan caldo e le fresche uova.
Nulla dico dell’affetto
di colui che diemmi il tetto,
tetto amico e liberale,
tetto dolce, in su del quale
scriver ben vi si potria:
“Regna qui la cortesia”.
Molto vaghe e molto belle
qui non son le villanelle;
ma nei giorni delle feste
vanno adorne di una veste
che simpatiche le rende
e che l’occhio non offende,
come gli abiti alla moda
con le pieghe e con la coda.
Hanno qui le donne il gusto
di vestire, a mezzo busto,
un bel saio incarnatino
e talor verde o turchino,
trapuntato a striscia d’oro.
Dalla vita angusta e snella
cade giù la lor gonnella
cui dinnanzi ondeggia un lieve
grembial bianco qual neve,
e nel basso suo contorno
ricamato intorno intorno
gira un lucido ornamento
di bell’oro o bell’argento.
Ma la gonna non è poi
tanto lunga che non puoi
ravvisare a prima occhiata
la lor calza colorata
e la scarpa ornata e bella
che pantufula s’appella.
Sulle spalle in due diviso
hanno un velo emulo al viso,
che si chiude innanzi al seno,
ma non sì che celi appieno
il candor del tumidetto
giovanile, eburneo petto.
Dalla gola lor gentile
pende un lucido monile
di più file in maglie stretto
di massiccio oro perfetto.
Dagli orecchi in giù cadenti
scendon tremuli pendenti,
non di lucido zaffiro
ma di perle unite in giro.
Invidetta poi nasconde
le lor trecce aurate e bionde
sottil rete, che fermata
su la fronte delicata
è da un nastro emulo al fiore
che celeste ha il suo colore.
Poi dal capo al petto insino
scende un bel candido lino,
tutto orlato di una bella
trapuntata reticella
che dall’una all’altra parte
si divide e si diparte,
e che ondeggia in su la faccia
e talor la gola allaccia.
Così van le semplicette
ricciutelle foresette,
e, vestendo in foggia tale
schietta schietta e naturale,
par che spargono amorose
un odor di gigli e rose.
Ma il linguaggio paesano
qualche cosa ha dello strano,
perché ognun di questa terra
ha giurato eterna guerra
all’armonico e discreto
primo suon dell’alfabeto.
Né capir si sa perché
muta l’A si spesso in E.
Quindi avvien che se costoro,
esprimendo i sensi loro,
voglion dir: “Quegli ha peccato
ed Iddio l’ha castigato”,
ti diran – “Quegli ha peccheto
ed Iddio l’ha castigheto”.
Che dirò di questi belli
ubertosi campicelli,
a cui Cerere e Pomona
tutto il suo dispensa e dona?
Io dirò che la natura
paga qui con doppia usura
le fatiche ed i sudori
dei campani agricoltori.
Proteggete, o Numi amici,
questi bei campi felici,
e non turbi o nembo o gelo
il seren di questo cielo,
ch’io per me, benché lontano,
sempre caro avrò Giugliano.